Digressione

Annotazioni fuori quarantena

Non lasciarsi ingannare è un imperativo che viene prima del sottrarsi al contagio

Jean-Luc Nancy, Un virus troppo umano

 

IL GIORNO DOPO

Quello che preoccupa è non tanto o non solo il presente, ma il dopo. Così come le guerre hanno lasciato in eredità alla pace una serie di tecnologie nefaste, dai fili spinati alle centrali nucleari, così è molto probabile che si cercherà di continuare anche dopo l’emergenza sanitaria.

Giorgio Agamben, Chiarimenti

Sebbene io pensi che il virus si possa sconfiggere solo con una più forte collaborazione tra tutti gli stati del mondo, sono convinto che – quando tutto questo sarà finito – i sovranisti riprenderanno con ancora maggior vigore il loro discorso sulla chiusura delle frontiere. Diranno: “Vedete? Ve lo avevamo detto che il mondo aperto rischia di ammazzarci”. E troveranno molte persone disponibili a prenderli in considerazione.

Roberto Esposito, Intervista 22/03/2020

Sostenere che non è tempo per discutere di filosofia e di libertà individuali, che ora è il tempo dell’emergenza, è esattamente il tipo di risposta che non promette nulla di buono. È ora, proprio ora che abbiamo bisogno tanto di vaccini quanto di politica e di filosofia. È ora che si decide come sarà il dopo, perché il dopo è già cominciato (sono decenni che si sta preparando questo dopo), ed è un dopo che inquieta.

Felice Cimatti, Homo homini lupus

Non è sufficiente debellare un virus. Se la padronanza tecnica e politica risulta fine a se stessa, trasformerà il mondo in un campo di forze sempre più tese le une contro le altre, sprovviste ormai di tutti gli alibi civilizzatori una volta validi. La brutalità contagiosa del virus si diffonde sotto forma di brutalità gestionale.

Jean-Luc Nancy, Un virus troppo umano

 

 

STATO DI SICUREZZA

Un eccesso di sicurezza dovrebbe indurci a cominciare a sentirci insicuri.

David Cooper, Il linguaggio della follia

Gli uomini si sono così abituati a vivere in condizioni di crisi perenne e di perenne emergenza che non sembrano accorgersi che la loro vita è stata ridotta a una condizione puramente biologica e ha perso ogni dimensione non solo sociale e politica, ma persino umana e affettiva. Una società che vive in un perenne stato di emergenza non può essere una società libera. Noi di fatto viviamo in una società che ha sacrificato la libertà alle cosiddette “ragioni di sicurezza” e si è condannata per questo a vivere in un perenne stato di paura e di insicurezza.

Giorgio Agamben, Chiarimenti

Si registra, nel corso della modernità, una tendenza sempre più accentuata ad immunizzare quello che, alle origini della democrazia, era un dialogo aperto. Dalla polis greca ad oggi si è accresciuta la paura dell’altro e con essa l’esigenza di sicurezza, la spinta a proteggersi da pericoli reali o apparenti.

Roberto Esposito, Intervista 17/06/2001

Prendiamo il vaiolo e le pratiche di inoculazione a partire dal XVIII secolo: non si tratta d’imporre una disciplina, ma di sapere quante persone sono affette dal vaiolo, a che età, con quali effetti, con quale mortalità, con quali lesioni o postumi, con quali rischi derivanti dall’inoculazione, con quali effetti statistici sulla popolazione in generale. Il problema riguarda le epidemie e le campagne mediche grazie alle quali si cerca di arrestare i fenomeni sia endemici sia epidemici. A tal riguardo, basta considerare tutte le leggi e gli obblighi disciplinari su cui si basano i moderni meccanismi di sicurezza per capire che non c’è una successione legge-disciplina-sicurezza, ma che la sicurezza è una certa maniera di aggiungere e far funzionare, oltre ai propri meccanismi, anche le antiche armature della legge e della disciplina. L’economia generale del potere si è trasformata all’insegna della sicurezza.

Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione

Oggi si può contare su un bisogno “naturale”, “eterno”, “spontaneo” di sicurezza, e di tutte quelle buone cose che la nostra civiltà ha prodotto. Si è riusciti ad intossicare la gente con il virus della conservazione della sicurezza, tanto che si batterebbero a morte per ottenerla. In realtà la cosa è più complicata: ciò per cui si battono è per il diritto alla sicurezza, che è una cosa sostanzialmente diversa. Quanto alla sicurezza in quanto tale, tutti se ne fottono. E’ stato necessario intossicarli durante intere generazioni perchè finissero per credere che ne avevano “bisogno”: questo successo è un aspetto essenziale dell’addomesticamento e della colonizzazione “sociali”.

Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte

Lo stato di emergenza si inserisce, oggi, all’interno del processo che sta trasformando le democrazie occidentali in qualcosa che bisogna ormai chiamare «Stato di sicurezza» (o Security State, come dicono i politologi americani). La parola «sicurezza» è entrata a tal punto nel lessico politico che possiamo dire, senza paura di sbagliare, che la «ragion di sicurezza» ha preso il posto di quella che un tempo si chiamava la «ragion di Stato».

Giorgio Agamben, Dallo stato di diritto allo stato di sicurezza

 

NODO POLITICO/ECONOMICO

La diffusione del contagio del coronavirus ha posto lo stato italiano di fronte a una scelta: proteggere la vita, oppure la produzione. La scelta è caduta sulla prima. Anche l’Unione Europea ha sospeso il Patto di stabilità, spingendo l’acceleratore sulla protezione della vita, anziché delle regole economiche. Perciò, in questo momento, si può dire che la politica ha prevalso sull’economia. Non bisogna dimenticare, però, che il nostro è un sistema misto, in cui tra la decisione politica e quella economica c’è sempre un continuo intreccio.

Roberto Esposito, Intervista 22/03/2020

Sostengo l’ipotesi che il capitalismo che si sviluppa alla fine del XVIII secolo e all’inizio del XIX ha innanzitutto socializzato un primo oggetto, il corpo, in funzione della forza produttiva, della forza lavoro. Il controllo della società sugli individui non si effettua solo attraverso la coscienza o l’ideologia, ma anche nel corpo e con il corpo. Per la società capitalista è il bio-politico ad essere importante prima di tutto, il biologico, il somatico, il corporale. Il corpo è una realtà bio-politica; la medicina è una strategia bio-politica.

Michel Foucault, La nascita della medicina sociale

Il modello della crescita è messo in discussione. È possibile che siamo davvero costretti a spostare i nostri algoritmi – ma non ci sono prove che questo possa compiersi per lasciar emergere uno spirito diverso.

Jean-Luc Nancy, Un virus troppo umano

L’importanza improvvisamente assunta dalla medicina del XVIII secolo ha il suo punto d’origine lì dove si incrociano una nuova economia “analitica” dell’assistenza e l’emergere di una police generale della salute. La nuova noso-politica iscrive la questione specifica della malattia nel problema generale della salute delle popolazioni. Il supporto di questa trasformazione [consiste] nella preservazione, nel mantenimento e nella conservazione della “forza-lavoro”. Ma indubbiamente Il problema è più ampio; concerne verosimilmente gli effetti economico-politici dell’accumulo di uomini. La grande spinta demografica dell’Occidente europeo nel corso del XVIII secolo, la necessità di coordinarla ed integrarla allo sviluppo dell’apparato di produzione, l’urgenza di controllarla con meccanismi di potere più adeguati e più serrati, fanno apparire la “popolazione” – con le sue variabili di numero, di ripartizione spaziale o cronologica, di longevità e di salute – non solo come un problema teorico, ma come oggetto di sorveglianza, d’analisi, di intervento di operazioni modificatrici. Si abbozza il progetto di una tecnologia della popolazione: stime demografiche, calcolo delle piramidi delle età, delle differenze di speranza di vita, dei tassi di morbosità, studio del ruolo che giocano l’una in rapporto all’altra la crescita della popolazione e quella delle ricchezze, vari incitamenti al matrimonio e alla natalità, sviluppo dell’educazione e della formazione professionale. In quest’insieme di problemi il “corpo” – corpo degli individui e corpo delle popolazioni – sembra portatore di nuove variabili: non più soltanto rari o numerosi, sottomessi o restii, ricchi o poveri, validi o invalidi, vigorosi o deboli, ma più o meno utilizzabili, più o meno suscettibili di investimenti redditizi, con maggiori o minori chances di sopravvivenza, di morte o di malattia, più o meno capaci di un apprendistato efficace. I tratti biologici di una popolazione diventano elementi pertinenti per una gestione economica ed è necessario organizzare intorno a essi un dispositivo che assicuri non solo il loro assoggettamento, ma il continuo aumento della loro utilità.

Michel Foucault, La politica della salute nel XVIII secolo

 

LA NUDA VITA

Che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?

Giorgio Agamben, Chiarimenti

Se possiamo chiamare “bio-storia” le pressione attraverso le quali i movimenti della vita ed i processi della storia interferiscono gli uni con gli altri, bisognerà parlare di “bio-politica” per disegnare quel che fa entrare la vita ed i suoi meccanismi nel campo dei calcoli espliciti e fa del potere-sapere un agente di trasformazione della vita umana.

Michel Foucault, La volontà di sapere

Michel Foucault è stato il primo a parlare di biopolitica. Il concetto rimase inesplorato per diversi anni, fino a quando alcuni pensatori italiani non lo ripresero e lo svilupparono. All’inizio, la novità venne accolta con scetticismo. La biopolitica sembrava nozione poco verificabile nella realtà. Senonché, i riscontri si sono fatti sempre più fitti, fino a diventare sconcertanti. Dalle procedure biotecnologiche, al terrorismo suicida, fino alla più recente crisi immigratoria, questioni di vita e di morte si sono installate al centro delle agende e dei conflitti politici. L’esplosione del coronavirus, con le conseguenze geopolitiche che ne sono scaturite, ha portato al culmine la relazione diretta tra vita biologica e interventi politici.

Roberto Esposito, Intervista 22/03/2020

«La dichiarazione dello stato di eccezione viene giustificata con l’emergenza epidemica. Allo stato attuale però non solo, evidentemente, non si può sapere se e quando finirà l’emergenza, ma anche qualora dovesse finire tutto fa pensare che la nozione di ‘diritto’ potrebbe subire trasformazioni profonde. Mi riferisco al fatto che l’opinione pubblica, in questa crisi, ha totalmente accettato l’idea che si possa integralmente legiferare sul proprio corpo (il contatto, la distanza, gli spostamenti). Non sarebbe la prima volta che in Italia misure eccezionali siano poi diventate ordinarie, il nostro paese è sempre stato in questo senso un importante laboratorio mondiale, e temiamo che lo sia anche in questo momento. Sin dall’inizio dell’epidemia da coronavirus (tralasciando gli effetti clinici) i media e l’opinione pubblica hanno accolto i decreti evocando, semmai, misure ancora più drastiche come quelle adottate in Cina o in Corea del Sud. Numerosissime sono state le delazioni, ancora di più le denunce. Al contrario poche e isolate sono state le voci contro l’insalubrità degli spazi urbani o i tagli alla sanità pubblica, che sono la vera causa della carenza di posti. Ancora meno sono stati coloro che hanno attaccato il cuore stesso del problema: la distruzione ambientale e il modello delle magalopoli sovraffollate. Verso tali obiettivi si sarebbe potuta rivolgere la rabbia collettiva e misure poltiche altrettanto drastiche di quelle adottate, che forse avrebbero dato risultati più duraturi nel contrastare la crisi ecologica di cui le pandemie sono sintomo. Al contrario, la maggioranza dell’opinione pubblica (comprese molte forze critiche) ha finito per accodarsi all’isteria collettiva che ha portato ad accettare di buon grado il controllo biopolitico totale che veniva proposto come unica soluzione e che fa ricadere sul solo corpo sociale la ‘lotta’ al virus. Una lotta che non manca di aspetti paradossali dal momento che combatte questa sola battaglia, evitando contesti ben più gravi come il collasso climatico o quello nucleare.» (Ermanno Castano)

Stiamo parlando della comparsa della salute e del benessere fisico della popolazione in generale come uno degli obiettivi essenziali del potere politico. Qui non si tratta più del sostegno a una frangia particolarmente fragile della popolazione, ma del modo in cui si può innalzare il livello di salute del corpo sociale nel suo insieme. I diversi apparati di potere devono farsi carico dei “corpi”, non solo per esigere da loro il servizio militare o per proteggerli dai nemici, non solo per assicurare i castighi o estorcere le tasse, ma per aiutarli, se necessario per costringerli, a garantire la loro salute. L’imperativo della salute: dovere di ognuno e obiettivo generale.

Michel Foucault, La politica della salute nel XVIII secolo

Possiamo domandarci se dobbiamo ormai riporre la speranza di una democrazia realizzata in una politica biologista. Una politica della vita e della cura provvederà al «vivere bene» (eu zèn) che Aristotele pone come fine della città? Sappiamo bene che non è così: la pandemia ci mostra che evitare il virus non definisce il bene di una vita, né individuale né collettiva. Il bio non fa l’eu zèn. Ma se al contempo ci rifiutiamo di essere trascinati nella spirale della produzione e del consumo, è nostro dovere ridefinire un «vivere bene» che non può eludere la morte, la malattia e pure l’incidente e l’imprevedibile che sono parte (ancora) intrinseca della vita. In altri termini, e nella misura in cui la nostra società non offre più la rappresentazione di un’«altra vita», dobbiamo pensare la vita al di là del «bio».

Jean-Luc Nancy, Sempre troppo umano

Per millenni, l’uomo è rimasto quel che era per Aristotele: un animale vivente ed inoltre capace di un’esistenza politica; l’uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente.

Michel Foucault, La volontà di sapere

 

MISURE OPERATIVE

La più grande malattia degli uomini è nata dalla battaglia contro le loro malattie, e gli apparenti rimedi hanno generato a lungo andare qualcosa di peggio di quello che con essi doveva essere eliminato.

Friedrich Nietzsche, Aurora

Il panico urbano è caratteristico della preoccupazione, dell’inquietudine politico-sanitaria che compare mano a mano che si sviluppa l’ingranaggio urbano. Per dominare questi fenomeni medici e politici che causavano una così intensa preoccupazione alla popolazione, si è fatto ricorso a un modello di intervento ben conosciuto ma raramente utilizzato: il modello della quarantena. Esisteva dalla fine del Medioevo in tutti i paesi europei, quello che verrebbe oggi chiamato un “piano d’urgenza”. Doveva essere applicato quando la peste o una malattia epidemica grave appariva in una città. Comprendeva le seguenti misure:

  1. Tutte le persone dovevano restare a casa per essere localizzate in un unico luogo. Ogni famiglia sotto il proprio tetto, e se possibile ogni persona nella propria camera. Nessuno doveva muoversi.
  2. La città doveva essere divisa in quartieri posti sotto la sorveglianza di persone appositamente designate. Da questo capo distretto dipendevano gli ispettori che dovevano percorrere le strade durante il giorno per verificare che nessuno uscisse dalla sua abitazione. Sistema di sorveglianza generalizzata.
  3. Questi sorveglianti di strada dovevano presentare tutti i giorni un rapporto dettagliato su quanto avevano osservato. Sistema di informazione centralizzato.
  4. Gli ispettori dovevano passare in rassegna tutte le abitazioni della città. In tutte le strade attraverso cui passavano, domandavano ad ogni abitante di presentarsi alla finestra al fine di verificare se era ancora vivo. Si trattava di una messa in chiaro esaustiva del numero dei vivi dei morti.
  5. Si procedeva alla disinfezione casa per casa con l’aiuto di profumi e incensi.

Il potere politico della medicina consisteva nel ripartire gli individui gli uni a fianco agli altri, nell’isolarli, nell’individualizzarli, nel sorvegliargli uno per uno, nel controllare il loro stato di salute, nel verificare se erano ancora vivi o se erano morti e nel mantenere così la società in uno spazio compartimentato, costantemente sorvegliato e controllato da un registro, il più completo possibile, di tutti gli avvenimenti intervenuti.

Michel Foucault, La nascita della medicina sociale

«Accettare il diktat dello stare a casa senza ragione non è solo un rischio sanitario (il danno che tanti avranno da questa inutile clausura domestica) ma soprattutto il fallimento del patto di ragione tra stato e cittadino. Allo stato non si chiede di spiegare le motivazioni razionali delle regole. Ai cittadini non si chiede di comportarsi responsabilmente. Ognuno viene meno ai suoi obblighi e ci si tratta con l’indulgenza tipica di persone immature. Il patto non è più basato sulla ragione e sul rispetto reciproco tra persona e istituzione, ma sull’interesse e la paura. E la superstizione ne è il naturale collante. #iostoacasa esprime il fallimento della libertà e della democrazia.» (Riccardo Manzotti)

A questa esigenza profilattica va collegato non soltanto il rilievo conferito all’igiene pubblica, ma anche la funzione di controllo sociale che ad esse viene collegata. L’isolamento dei luoghi in cui più facilmente possono svilupparsi i germi infettivi dovuti all’ammassamento di corpi: porti, prigioni, fabbriche, ospedali, cimiteri. L’intero territorio viene progressivamente suddiviso in zone rigidamente separate in funzione di una sorveglianza insieme medica e sociale. Il modello originario, di matrice medievale, è quello della quarantena. Il modello della peste prevede la ripartizione dei malati in ambienti individuali che ne consentisse la numerazione, la registrazione e il controllo assiduo. A questo modello più arcaico si sovrappone, nel tempo, un altro di derivazione scolastica e militare, tendente anch’esso alla suddivisione spaziale, prima per conglomerati o classi e poi per posti individuali. Quello che così si forma, alla confluenza di entrambi i dispositivi, è una sorta di incasellamento, tale da collocare gli individui in un sistema capillare di segmenti istituzionali – famiglia, scuola, esercito, fabbrica, ospedale – che ne vieta, o quantomeno controlla, la circolazione in funzione della sicurezza pubblica. Tutta l’urbanizzazione che si sviluppa in Europa a partire dalla metà del XVIII secolo si presenta come una fitta rete di recinzioni tra luoghi, settori, territori protetti da confini stabiliti secondo norme politico-amministrative che vanno ben al di là delle esigenze igienico-sanitarie. E’ fin troppo ovvio il quadro immunitario in cui si colloca questo generale processo di sovrapposizione tra pratica terapeutica ed ordinamento politico: per divenire oggetto di “cura” politica, la vita deve essere separata e chiusa in spazi di progressiva desocializzazione che la immunizzano da ogni deriva comunitaria.

Roberto Esposito, Immunitas

«Il potere politico, che si sta legittimando attraverso il confinamento sociale finalizzato alla tutela della salute, richiede oggi un’impressionante acquisizione di dati. Una delle Task force, la più numerosa contando 74 (settantaquattro) esperti, ha da pochi giorni scelto la app Immuni con cui verrà monitorata la salute dei cittadini attraverso un diario clinico contenente tutte le informazioni più rilevanti del singolo utente (sesso, età, malattie pregresse, assunzione di farmaci). App che si affianca (ma come?) a quella già rilasciata da Regione Lombardia (AllertaLOM) e già scaricata da quasi 100 mila lombardi. Prove generali di Safetycracy, in cui il possesso dei dati elementari delle nostre vite diviene strumento di potere. La tecnocrazia medica si sta sostituendo a quella degli esperti in campo economico e finanziario. Negli anni scorsi, sono stati gli economisti a fare da spalla o da contraltare alla politica, prescrivendo ciò che è fattibile o meno: oggi la parola passa alla tecnocrazia medico-sanitaria. Nell’attesa che le due tecnocrazie, economica e medica, si abbraccino per un comune profitto grazie al contact tracing prodotto dalle app e ai diari clinici che ci verrà chiesto di compilare e che dovrebbe essere aggiornato tutti i giorni con eventuali sintomi e novità sullo stato di salute.» (Riccardo Bonacina)

Dappertutto ci saranno resti delle società disciplinari ancora per anni e anni, ma sappiamo che siamo già in un altro tipo di società che bisognerebbe chiamare, secondo il termine proposto da Burroughs, società di controllo. Stiamo entrando in società di controllo che si definiscono molto diversamente dalle società di disciplina. Coloro che vegliano sul nostro bene, non avranno più bisogno di spazi di reclusione. Tutto questo, le prigioni, le scuole, gli ospedali, sono già un argomento di continue discussioni. Le società di controllo non passeranno più per gli spazi di reclusione. Bisogna stare attenti ai temi che nascono. Il controllo non è una disciplina. Con una autostrada non si reclude nessuno, ma facendo autostrade si moltiplicano i mezzi di controllo. Non dico che questo sia l’unico fine dell’autostrada, ma si può andare in giro all’infinito e ‘liberamente’ senza essere affatto reclusi, pur essendo completamente controllati. È questo il nostro futuro.

Gilles Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?

 

HORTUS CONFUSUS

  • Come si spiegano i tentennamenti e i continui cambi di strategia da parte dei governi?
  • «La pandemia ha mostrato alla luce del sole l’assoluta impreparazione dei governi occidentali.» (Ilaria Capua)

«E’ crollata la capacità del Sistema Sanitario di intervenire. Come fa un Sistema Sanitario a far fronte a questa marea se non sono stati identificati i casi sul territorio? Non hanno fatto la tracciabilità, non hanno fatto prevenzione? Nessuna epidemia si controlla con gli ospedali, nessuna. Credo dovevano esser fatti i blocchi dove c’erano i focolai, dovevano essere testati tutti per fermare l’epidemia. Sono tre settimane che lo stiamo dicendo. Piccoli casi come “Vo” si sarebbero potuti affrontare in tutta Italia. Si sarebbero potuti spegnere tutti i focolai.» (Andrea Crisanti)

«La mancanza di coordinamento ha evidenziato una gestione della crisi improvvisata: Presidente del Consiglio, Ministro della Salute, Commissario all’emergenza Borrelli, Presidenti delle Regioni coinvolte, Protezione Civile, tutti hanno parlato, con il risultato di ridurre l’efficacia del messaggio e aumentare i fattori confondenti.» (Luca Poma)

Non c’è da stupirsi se qui genera più confusione che là dove è nato. Perché in Cina si era già sul piede di guerra, che si tratti di mercati o di malattie. In Europa vi era invece un certo disordine: tra le nazioni e tra le aspirazioni. Il risultato di tale disordine è stata l’indecisione, l’agitazione e un difficile adattamento.

Jean-Luc Nancy, Un virus troppo umano

  • Cosa sappiamo oggi della letalità del virus?
  • Le stime cambiano di giorno in giorno, ma quello che mi pare indichino i dati più recenti è che probabilmente la letalità di Covid-19 è inferiore alle stime iniziali, come capitato spesso in passato per altri virus respiratori. I dati diffusi dall’Oms qualche settimana fa parlavano di una letalità pari al 3,4%, ma si tratta di quella che chiamiamo case-fatality rate, un calcolo che vede al numeratore il numero di morti accertate e al denominatore quello dei casi noti. Si tratta di stima per forza di cose grossolana, che dipende fortemente dalla nostra capacità di identificare le persone infette. Se il numero reale di contagi è molto superiore a quelli che conosciamo lo scenario cambia completamente, e il numero di persone che rischia di morire in questa epidemia diminuisce drasticamente. Se la proporzione di persone che ha già contratto il virus, e che quindi evidentemente ha sviluppato sintomi lievi e difficilmente è stata testata per il virus, è abbastanza ampia potremmo persino trovarci nella situazione in cui nella popolazione può svilupparsi un’immunità di gregge. Ovviamente non c’è alcuna certezza che sia questa la situazione reale, però alcuni esempi dove conosciamo con più precisione lo scenario epidemiologico, dove una larghissima parte della popolazione è stata sottoposta ai tamponi, suggeriscono che l’infection-fatality rate, la percentuale di morti sul numero reale di infetti, potrebbe essere molto più basso delle stime dell’Oms. Molto più basso anche di quello 0,9% utilizzato nelle scorse settimane dai ricercatori dell’Imperial College per stimare l’impatto della pandemia, e più simile invece a quello che vediamo ogni anno con l’epidemia stagionale di influenza. Anche se fosse così non vorrebbe dire che il problema non esiste, perché l’influenza è una malattia pericolosa che uccide centinaia di migliaia di persone ogni anno. Ma avere dati affidabili non serve a rassicurare la popolazione, serve a evitare di continuare ad agire alla cieca. Servono al più presto dati affidabili su cui basare le prossime decisioni, informazioni che invece per ora sono mancate e hanno costretto i decisori ad agire alla cieca. E che agendo alla cieca esiste il rischio concreto di fare molti più danni di quelli che si cerca di evitare. Se per esempio la letalità di Sars-cov-2 fosse realmente molto inferiore a quella che temiamo, e si avvicinasse come indicano i dati islandesi a quella di una malattia poco più pericolosa, se non addirittura meno letale, dell’influenza stagionale, allora le misure di distanziamento sociale che sono state adottate in molti paesi potrebbero facilmente rivelarsi inutili, anzi dannose. Pensiamo a quel grafico che ha girato molto sui social media in cui si spiega a cosa serve appiattire il picco epidemico per evitare che il numero di pazienti superi le capacità del sistema sanitario. In teoria sembra intuitivo, ma immaginiamo che le misure di distanziamento prese non siano sufficienti a impedire il sovraccarico del sistema sanitario. In questo caso l’appiattimento della curva epidemica non fa che prolungare il periodo di sovraccarico del sistema, e la mortalità in eccesso causata dall’impossibilità di curare adeguatamente altre patologie, a causa del sovraffollamento degli ospedali, potrebbe rivelarsi superiore a quella che avremmo visto con un picco epidemico più elevato ma di durata minore. Dall’inizio dell’emergenza ognuno ha raccolto i dati come meglio credeva. Ma il numero di contagi ha un significato molto diverso se si testa una percentuale maggiore o minore della popolazione. E persino il numero dei decessi può raccontare storie molto diverse in base ai criteri con cui si decide di identificare un morto per la Covid. È assolutamente necessaria una standardizzazione nella procedura di raccolta dei dati, che in caso di nuove pandemie permetta di avere il prima possibile un’immagine precisa della malattia che ci troviamo ad affrontare, in modo che grazie alle informazioni raccolte ogni stato possa prendere decisioni ponderate su come affrontarla. In questa occasione mi sembra invece che si sia proceduto sull’onda del panico, nella confusione generali dei numeri i governi hanno preso decisioni motivate dalla necessità di non essere accusati di fare troppo poco. E presto potremmo trovarci a pagare un prezzo molto alto se continueremo a muoverci alla cieca. (John Ioannidis)

«Un sistema sanitario come quello italiano, fino a un decennio fa tra i migliori al mondo, è stato fatto precipitare sull’altare del patto di stabilità: tagli da 37 miliardi complessivi e una drastica riduzione del personale (-46.500 fra medici e infermieri), con il brillante risultato di aver perso 70.000 posti letto, che, per quanto riguarda la terapia intensiva di drammatica attualità, significa essere passati dai 922 posti letto ogni 100mila abitanti nel 1980 ai 275 nel 2015. Tutto questo in un sistema sanitario progressivamente privatizzato e, quando anche pubblico, sottoposto ad una torsione aziendalista con l’ossessione del pareggio di bilancio. É quasi paradigmatico che il re sia visto nudo a partire dalla Lombardia, considerata l’eccellenza sanitaria italiana e ora messa alle corde da un’epidemia che ha dimostrato l’intrinseca fragilità di un modello economico-sociale interamente fondato sulla priorità dei profitti d’impresa e sulla preminenza dell’iniziativa privata. Può essere messo in discussione questo modello?» (Marco Bersani)

Viviamo in una situazione che alcuni fatti hanno condotto al parossismo. Questi fatti che in fondo sono gli stessi nel corso di tutto lo sviluppo del sistema medico a partire dal XVIII secolo, quando è nata un’economia politica della salute, quando sono comparsi dei processi di medicalizzazione generalizzata. Si tratta di conoscere meglio il modello di funzionamento storico di questa disciplina dal XVIII secolo per sapere in che misura è possibile modificarlo. Bisogna affermare che la medicina non deve essere rifiutata né adottata di per se stessa, ma che la medicina fa parte di un sistema storico, che fa parte di un sistema economico e di un sistema di potere, che è necessario mettere in luce i legami tra la medicina, l’economia, il potere e la società per determinare in che misura è possibile rettificare e applicare il modello.

Michel Foucault, Crisi della medicina o crisi dell’anti-medicina?

«Il tasso di letalità potrebbe essere legato alla risposta dei vari sistemi sanitari. Quello tedesco può vantare il più alto numero di terapie intensive. In Italia all’inizio dell’epidemia avevamo poco più di 5000 ventilatori meccanici, e gli ospedali delle zone più colpite (in primis il lodigiano, Cremona, Brescia e poi Bergamo) sono andati presto in tilt. Molti anziani sono morti nelle loro case, come raccontato da medici e politici, senza la possibilità di essere intubati e, forse, salvati. In Germania ci sono ben 28 mila terapie intensive, e il governo federale punta a raddoppiarli (grazie ai produttori tedeschi) in pochi mesi. «Qui siamo all’inizio dell’epidemia» chiude Wieler «e possiamo ancora garantire che le persone gravemente malate possano essere curate in ospedale». È probabile che la Germania riesca a non saturare mai le sue strutture.» (Emiliano Fittipaldi)

La crisi italiana è una crisi costruita in anni e anni di tagli sistematici alla sanità pubblica (homo homini lupus come massima di governo è operativa da molto prima del Covid-19). Improvvisamente siamo infatti chiamati alla “responsabilità” dallo stesso sistema politico-economico che per anni ha del tutto irresponsabilmente colpito quella stessa sanità pubblica ora esaltata come eroica e indispensabile.

Felice Cimatti, Homo homini lupus

«In pratica in meno di un mese abbiamo avuto gli stessi malati di influenza di un’intera stagione. Un’ondata a cui era impossibile far fronte a causa dei tagli alla sanità degli ultimi anni. Secondo l’Oms, tra il 1997 e il 2015 sono stati dimezzati i posti letto in terapia intensiva. E, peggio, non siamo stati abbastanza veloci a riparare i danni. Perché quando abbiamo avuto le notizie dalla Cina, i francesi sono intervenuti subito sui posti in terapia intensiva e noi no? Abbiamo preferito bloccare i voli con la Cina: una misura davvero inutile. Per non parlare poi del caos mascherine. La verità è che all’inizio non le avevamo quindi si diceva che dovessero usarle sono medici e pazienti, poi siamo diventati produttori di mascherine e quindi diciamo che servono a tutti. E’ stato fatto un pasticcio dopo l’altro. Si voleva blindare la Lombardia come la Cina e poi si è permesso a migliaia di persone di migrare al sud… Francamente non si è capito quale sia stato l’approccio del governo e le misure di contenimento sono state prese in ritardo» (Giulio Tarro)

 

(IM)MONDIALIZZAZIONE

Tutto avviene come se l’avvenire non potesse essere immaginato che come il ricordo di un disastro di cui noi avremmo oggi solo il presentimento.

Marc Augé, Rovine e macerie

«La nostra salute dipende per il 20% dalla predisposizione genetica e dall’80% dai fattori ambientali. Epidemie come il coronavirus derivano dalle azioni dell’uomo sull’ambiente.»(Ilaria Capua)

Il coronavirus in quanto pandemia è, a tutti gli effetti, un prodotto della globalizzazione. Ne precisa i tratti e le tendenze, è un libero-scambista attivo, combattivo ed efficace. Partecipa al grande processo attraverso il quale una cultura si dissolve, mentre si afferma qualcosa che, più che una cultura, è un meccanismo di forze inestricabilmente tecniche, economiche, dominanti ed eventualmente fisiologiche o fisiche (si pensi al petrolio o all’atomo).

Jean-Luc Nancy, Un virus troppo umano

«I governi del mondo stanno facendo del nostro panico una vertiginosa torre di Babele. Eppure, basterebbe guardare la cartina d’Italia e del mondo per notare la declinazione dei colori: il Nord di un bel marrone scuro, la Toscana un po’ meno sostenuto, l’Umbria un amabile avorio e giù al Sud il bianco fulgente di regioni come la Basilicata e il Molise, le regioni meno industrializzate del Paese. O come mai? Non sarà perché nel Nord, coperto da una cappa nero piombo di gas letali, le fabbriche non sono mai state chiuse? E guardate il mondo: in Africa, chi ha più contagi? E in America? E in Asia? Da ogni parte si dice che l’avvelenamento della terra e la sopraffazione di flora e fauna sono la causa di questa e di ogni passata e futura epidemia (ne parlano fra gli altri Silvio Greco e Guido Viale). Ma avete mai sentito qualche autorità accennare a una conversione delle fabbriche, a una riduzione del traffico a benzina, alla chiusura di allevamenti intensivi, alla protezione dei cittadini, non da se stessi, ma dall’inquinamento che li sta uccidendo, per avviare misure utili a ripulire l’aria che respiriamo e lasciarcela respirare in pace?» (Ginevra Bompiani)

Qui, nel labirinto morboso della civiltà, pulciaio rovente, il bacillo è preso in consegna dall’uomo nelle sue mura. È la braca umana, la carezza, il graffio, la gengiva, l’inguine umano che spinge il contagio dentro gli usci, piano. La città umana, coi suoi mercati, i suoi beccai, le sue processioni, i suoi bagni pubblici, i suoi abiti magnifici, i suoi postriboli, le sue taverne, i suoi mendicanti, le sue frodi, è naturalmente pestifera, è in un frenetico ronzare, tubare, frinire, bramire, rantolare, gridare, trepidare di muri, di tetti, di corti, di aie, di balconi, di fili tesi e intrecciati, mille volte via mongola e Rattus rattus, carovana della seta e bacillo di Yersin. Il contagio è un circolo vivente, dove tutto è pulce-ratto-uomo nel medesimo tempo.

Guido Ceronetti, La vita apparente

«Fra i testi più rilevanti che si possono citare in merito al rischio di pandemie (in particolare di coronavirus) c’è uno studio dell’Oms del 2007 intitolato The Wolrd Healt Report 2007 che avvisa della minaccia riconducendola agli alti livelli di distruzione ambientale causati da uno sviluppo industriale orientato unicamente al profitto. Il particolare tipo di epidemie proprio della nostra epoca (diverso da quelle tardo antiche o medievali) nasce dalla dannosa interazione fra deforestazione e agroindustria. Monocolture e allevamenti intensivi vanno, in genere, a sostituire le foreste e gli ambienti naturali con un duplice effetto nefasto: da un lato l’assenza di questi ultimi fa venire meno la biodiversità capace di contrastare naturalmente il diffondersi dei virus, dall’altro la distruzione delle foreste fa sì che alcuni animali selvatici (spesso venduti nei mercati) entrino in contatto con quelli degli allevamenti e con le periferie urbane. I casi più noti e studiati sono quelli degli insetti e dei pipistrelli che, non trovando più i loro habitat e le loro prede, si sono rivolti agli allevamenti intensivi che li hanno sostituiti. Non dimentichiamo che la Cina è fra i maggiori esportatori di carne da macello al mondo, e qui si trovano enormi allevamenti detti pigs hotels perché ammassano decine di migliaia di esemplari in schiere di edifici alti anche tredici piani. Un’‘eterna Treblinka’ in cui la vita viene continuamente prodotta solo per essere consumata. Il rischio di pandemie (il caso dei coronavirus, come dimostrato, era già noto da più di dieci anni) è di tale rilevenza da essere posto dall’Oms all’attenzione del G20 di Amburgo nel 2017, quello durante il quale  gli Stati Uniti hanno abbandonato l’accordo di Parigi sul clima. Non che gli altri paesi hanno fatto meglio: lo hanno sottoscritto e poi disatteso, a dimostrazione del fatto che non basta un trattato (peraltro dai modestissimi obiettivi) per opporsi a fondamentali interessi capitalistici come quello dello sfruttamento delle risorse naturali. Il virus insomma non è venuto dal nulla, ma è emerso in una situazione in cui la ‘normanità’ aveva già raggiunto livelli di intollerabilità, interrompendola e mostrandone il vero volto che non si aveva il coraggio di guardare.» (Ermanno Castano)

  • «Questa emergenza ha rivelato che è il vero punto di fragilità del sistema è la sua velocità. Attraverso le infrastrutture di comunicazione siamo riusciti ad accelerare (e quindi a trasformare qualitativamente) dei fenomeni che prima mettevano millenni ad accadere. Pensiamo al virus del morbillo: non era altro che una mutazione della peste bovina che si è trasmessa all’essere umano quando abbiamo iniziato ad addomesticare la mucca. Il morbillo ha invaso il mondo camminando, a piedi. Pensiamo all’influenza spagnola, che un secolo fa ci ha messo ben due anni per diffondersi. Questa volta invece sono bastate un paio di settimane. Un virus che stava in mezzo a una foresta, in Asia, è stato improvvisamente catapultato al centro della scena, passando da un mercato in cui venivano radunati animali provenienti da aree geografiche molto diverse. Siamo noi ad aver creato l’ecosistema perfetto per generare spontaneamente delle armi biologiche naturali.» (Ilaria Capua)
  • Insomma le infrastrutture della globalizzazione funzionano come un ripetitore epidemico, un amplificatore di ogni minimo rischio biologico.
  • «Esattamente. Nel ciclo naturale, se pure il virus usciva dalla foresta andava a finire in un villaggio di cento persone e lì esauriva il suo ciclo di vita. Noi stiamo vivendo un fenomeno epocale, ovvero l’accelerazione evolutiva del virus. La tecnologia è troppo veloce per quello che la biologia è in grado di assorbire.» (Ilaria Capua)

Abolendo progressivamente la nostra nozione delle distanze, la velocità, avvicinandoci violentemente, ci allontana in ugual misura dalle realtà sensibili. Più avanziamo rapidamente verso il termine del nostro spostamento e più regrediamo, al punto che la celerità potrebbe essere, in qualche modo, un’infermità precoce, una miopia, letteralmente.

Paul Virilio, L’orizzonte negativo

«Ogni sguardo autonomo sul nostro tempo deve evadere dall’etnocentrismo della velocità, che pensa il mondo come lo farebbe un tachimetro, e partire dall’inventario delle forme di esperienza che esso mette fuori-legge e getta fuori dai finestrini. La velocità è come una linea retta, la distanza più breve tra due luoghi e due persone: ci spinge a considerare inutili e noiose le strade che conoscono la salita, le curve e la sosta, il mutare delle prospettive… La lentezza, con la sua fantasia e i suoi spazi per la meditazione e l’elaborazione, è un giudice lucido e durissimo dell’ingordigia della velocità». (Franco Cassano)

 

DYING REVIEW

Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso.

Guy Debord, La società dello spettacolo

  • Lei hai più volte insistito sulla necessità di studiare i rapporti dei patologi sulle cause di decesso. Qui si entra in considerazioni che hanno importanti risvolti politici e geopolitici. Pensiamo al modo differente in cui vengono conteggiati i morti tra Italia e Germania: da una parte ascrivendo alla lista dei caduti da coronavirus ogni paziente risultato positivo al test indipendentemente da ogni patologia pregressa, dall’altra facendo figurare le altre patologie come causa diretta del decesso. Nel dibattito italiano sembra quasi che porsi delle questioni metodologiche costituisca una mancanza di rispetto per le vittime.
  • «C’è sicuramente una strumentalizzazione che rende più difficile affrontare la questione. Ogni morte è una tragedia. Ma noi stiamo cercando di gestire una pandemia, ovvero evitare altre morti, e ogni decesso rappresenta delle informazioni preziose. Quindi sì, distinguere tra morti “da” coronavirus o “in associazione” al coronavirus è necessario. Che possano nascere delle polemiche su questo è molto grave. Noi dobbiamo fare queste distinzioni perché ci aiutano a verificare delle ipotesi. Quello che sta accadendo in Lombardia, ripeto, deve essere chiarito. La questione dei criteri di reporting dei casi è fondamentale: abbiamo bisogno di dati armonizzati a livello nazionale, europeo, mondiale. Altrimenti brancoliamo nel buio.» (Ilaria Capua)

La distorsione della realtà nel reportage è il veritiero reportage sulla realtà.

Karl Kraus, Detti e contraddetti

«I numeri della Lombardia sono tutti sbagliati. La verità sta nei numeri. Se si prendono le tabelle di ieri 21 marzo in Veneto, prende il numero dei deceduti che sono 146 e lo divide per il totale dei contagiati 4617 vedrà che la mortalità è attorno al 3% come in Cina o in altri paesi, nella media. Se lei prende invece il totale dei positivi in Lombardia che ieri erano 25.515 e lo divide per il n. dei deceduti, 3095, avrà una percentuale del 12%, i conti non tornano! Com’è possibile che in Veneto ci sia il 3% della mortalità mentre in Lombardia il 12%. Che cosa manca in Lombardia? Manca il numero dei casi domiciliari. Non è che in Lombardia si muore di più, il fatto è che il numero dei contagiati è molto maggiore ma non sono rilevati. Se si tiene come punto di riferimento il 3% di mortalità si può realisticamente, non solo ipotizzare ma dire che in Lombardia ci sono circa 100.000 non circa 25.000 casi, questa è la realtà.» (Andrea Crisanti)

Problemi giuridici: di quanti cadaveri è lecito sbagliarsi?

Stanislaw J. Lec, Pensieri spettinati

«L’allarme è fonte di stress e lo stress determina un calo delle difese immunologiche. Lo sanno tutti gli esperti, eppure ogni giorno assistiamo a questi inutili numeri che comunica la Protezione civile. Sono dati che non vogliono dire nulla: non conosciamo il numero preciso dei contagiati e di conseguenza ci ritroviamo di fronte a un tasso di mortalità altissimo. Se andiamo a vedere alcuni studi inglesi, però, scopriamo che gli infetti sarebbero molti di più: secondo uno studio dell’Università di Oxford addirittura il 60-64% dell’intera popolazione; per l’Imperial College almeno 6 milioni. Con queste stime il tasso di decessi si abbassa enormemente. Credo che arriveremo sotto l’1% come in Cina.» (Giulio Tarro)

Quella che stiamo vivendo è una gigantesca operazione di falsificazione della verità. Se gli uomini acconsentono a limitare la loro libertà personale, ciò avviene, infatti, perché essi accettano senza sottoporli ad alcuna verifica i dati e le opinioni che i media forniscono. La pubblicità ci aveva abituato da tempo a dei discorsi che agivano tanto più efficacemente in quanto non pretendevano di essere veri. E da tempo anche il consenso politico si prestava senza una convinzione profonda, dando in qualche modo per scontato che nei discorsi elettorali la verità non fosse in questione. Quello che ora sta avvenendo sotto i nostri occhi è, però, qualcosa di nuovo, se non altro perché nella verità o nella falsità del discorso che viene passivamente accettato ne va del nostro stesso modo di vivere, della nostra intera, quotidiana esistenza. Per questo sarebbe urgente che ciascuno cercasse di sottoporre quanto gli viene proposto al vaglio di una almeno elementare verifica. Non sono stato il solo a notare che i dati sull’epidemia sono forniti in modo generico e senza alcun criterio di scientificità. Dal punto di vista epistemologico, è ovvio, ad esempio, che dare una cifra di decessi senza metterla in relazione con la mortalità annua nello stesso periodo e senza specificare la causa effettiva della morte non ha alcun significato. Eppure è proprio questo che si continua ogni giorno a fare. Si direbbe che la menzogna viene tenuta per vera proprio perché, come la pubblicità, non si preoccupa di nascondere la sua falsità. L’umanità sta entrando in una fase della sua storia in cui la verità viene ridotta a un momento nel movimento del falso. Vero è quel discorso falso che deve essere tenuto per vero anche quando la sua non verità viene dimostrata. Ma in questo modo è il linguaggio stesso come luogo della manifestazione della verità che viene confiscato agli esseri umani. Essi possono ora soltanto osservare muti il movimento – vero perché reale – della menzogna. Per questo per arrestare questo movimento occorre che ciascuno abbia il coraggio di cercare senza compromessi il bene più prezioso: una parola vera.

Giorgio Agamben, Sul vero e sul falso

 

LA GRANDE NARRAZIONE

Ciò che la malattia infettiva ha risparmiato viene devastato dalla stampa. In futuro non sarà più possibile stabilire con certezza la causa dei rammollimenti cerebrali.

Karl Kraus, Detti e contraddetti

La comunicazione è la trasmissione e la propagazione di un’informazione. Ma che cos’è un’informazione? Un’informazione è un insieme di parole d’ordine. Quando venite informati, vi dicono ciò che si presuppone che crederete. In altri termini informare è far circolare una parola d’ordine. Le dichiarazioni della polizia sono chiamate giustamente dei comunicati. Ci comunicano informazione, ci dicono ciò che si presume che possiamo, dobbiamo o siamo tenuti a credere. O anche a non credere, ma facendo come se ci credessimo. Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se ci credessimo. Questa è l’informazione, la comunicazione, e senza queste parole d’ordine e senza la loro trasmissione, non c’è informazione, non c’è comunicazione. Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo. È evidente, e oggi ci concerne particolarmente.

Gilles Deleuze, Che cos’è l’atto di crezione?

  • Se appare plausibile ritenere che alcuni pazienti abbiano contratto il virus in ospedale, possiamo dire che la paura del virus ha avuto un ruolo nella sua diffusione?
  • «È una delle ipotesi da prendere in considerazione. Se c’è stata una corsa agli ospedali questa non ha certamente migliorato la situazione. Da tempo con il mio centro di ricerca stiamo proprio lavorando sull’influenza dei media (e nello specifico delle fake news) nella diffusione delle malattie. Ci siamo interessati alla peste suina africana, che se dovesse diffondersi per spillover al circuito industriale sarebbe una catastrofe economica, e abbiamo osservato come il dibattito nei media influenza i comportamenti della popolazione, producendo talvolta degli effetti perversi. Un’epidemia è un fenomeno sociale oltre che biologico e dobbiamo chiederci cosa fanno i media al coronavirus. Per ora sappiamo che producono molti cosiddetti “worried healthy” che assumono comportamenti disfunzionali.» (Ilaria Capua)

Non si percepisce ancora che la parola di un soggetto indisciplinato ha una gittata più lunga del mortaio, e che le fortezze spirituali di quest’epoca sono una costruzione che crolla in caso di emergenza?

Karl Kraus, In questa grande epoca

Quel che c’è di più prospero nella società del benessere, è il malessere. Tra abissi di Disperazione e d’Informazione.

Guido Ceronetti, Per le strade della vergine

La cosiddettà «civiltà contemporanea» ha reso inetti i cervelli di miliardi di uomini a esercitare la benché minima funzione critica nei confronti della carta stampata, del proprio giornale in ispecie. Davanti il su’ giornale, uomo gli è come passero, passero ipnotizzato dal serpente. Quello magari mente a tutto ispiano, con lingua e fronte di consumata e leccativa meretrice, di provocatore, di ruffiano, di ladro, di affiliato a bande assassine, e di lor zelante e trasudata spia. Ma «io sono il tuo giornale e tu non avrai altro giornale avanti di me».

Carlo Emilio Gadda, Eros e Priapo

«L’impressione è che le autorità abbiano scelto la scorciatoia della paura sulla base di un frame narrativo che sa parlare solo alla pancia dei cittadini, atteggiamento giustificato dalla gestione dell’emergenza. “Non c’è tempo ora per ragionare, siamo in emergenza”: quante volte abbiamo sentito questa frase, parte di un paradigma autoassolutorio buono solo per una classe dirigente inetta, che fino al giorno prima nulla ha fatto per maturare una cultura del rischio – propria e della cittadinanza – se non perdersi in futili litigate su questioni politiche, partitiche, di nessuna reale importanza, scontrandosi rumorosamente in TV su argomenti lontani anni luce dai reali interessi.» (Luca Poma)

Nel modello del filosofo inglese Thomas Hobbes, che ha influenzato profondamente la nostra filosofia politica, il contratto con cui i poteri erano trasferiti al Sovrano presupponeva la paura reciproca e la guerra di tutti contro tutti: lo Stato era per l’appunto ciò che doveva mettere fine alla paura. Nello Stato di sicurezza questo modello è ribaltato: lo Stato si fonda durevolmente sulla paura e deve sostenerla ad ogni costo, perché da essa trae la sua funzione essenziale e la sua legittimazione.

Giorgio Agamben, Dallo stato di diritto allo stato di sicurezza

Il vero ha smesso di esistere quasi dappertutto, o nel migliore dei casi si è visto ridotto allo stato di ipotesi indimostrabile.

Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo

L’uso del potere di Stato è originariamente eccessivo e abusivo. Come lo è, d’altronde, il ricorso al terrore e alla paura, che è sempre stata l’istanza estrema del potere sovrano dello Stato – in una forma implicita o esplicita, grossolana o sottile, foss’anche contrattuale e protettiva.

Jacques Derrida, Stati canaglia

È possibile, data l’inconsistenza etica dei nostri governanti, che queste disposizioni siano dettate in chi le ha prese dalla stessa paura che esse intendono provocare.

Giorgio Agamben, Contagio

I poteri attuali, con la loro povera informazione falsificata, fuorviano loro stessi quasi quanto stordiscono i loro amministrati.

Guy Debord, In girum imus nocte et consumimur igni

«Una delle strategie più efficaci messe in campo dai poteri forti durante ogni emergenza consiste nella colpevolizzazione delle persone, per ottenere dalle stesse l’interiorizzazione della narrazione dominante su ciò che accade. É una strategia ampiamente messa in campo nell’ultimo decennio con lo shock del debito pubblico. É una strategia che si sta ora dispiegando nella fase più critica dell’epidemia. Non è il sistema sanitario, de-finanziato e privatizzato, a non funzionare; non sono i folli decreti che, da una parte, tengono aperte le fabbriche (e addirittura incentivano con un bonus la presenza sul lavoro), e dall’altra riducono i trasporti, facendo diventare le une e gli altri luoghi di propagazione del virus; sono i cittadini irresponsabili che si comportano male, uscendo a passeggiare o a fare una corsa al parco a inficiare la tenuta di un sistema di per sé efficiente.» (Marco Bersani)

Là dove il mondo reale si mutua in semplici immagini, le semplici immagini diventano esseri reali, e motivazioni efficienti di un comportamento ipnotico.

Guy Debord, La società dello spettacolo

La televisione, tutta questa roba, sono degli abbruttitoi, e talmente inferiori… Quotidiani e mensili, tutto… E talmente schiaccianti che neppure le menti più solide resistono… Ne saranno abbrutti fin da piccoli… Alcool, auto, televisione, il giornale, il settimanale… E l’aria che respirano…

Louis-Ferdinand Céline, Colloqui con Jean Guenot

«Vorrei osservare come la narrazione mediatica abbia contribuito alla percezione e ricezione del virus. Abbiamo assistito ad alcuni passaggi mediatici fondamentali. Il primo capitolo risale alla fine di gennaio, ed è collegato alla diffusione della notizia allo scoppio dell’epidemia in Cina, con conseguente narrazione apocalittica di quanto stava avvenendo all’epicentro dell’infezione: le imponenti misure di contenimento prese dal governo cinese, l’epopea dei connazionali “intrappolati” dalla quarantena, il prodigio dell’ospedale costruito in dieci giorni, la narratio di un evento sconvolgente ma tutto sommato lontano. I media “nostrani” hanno imbastito una comunicazione a tinte forti, complice il fatto che si trattava comunque di un avvenimento remoto. Il secondo capitolo è iniziato quando, nella terza decade di febbraio, la malattia è arrivata davvero in Italia. Per alcuni giorni, i mezzi di comunicazione di massa, soprattutto quotidiani e televisione, si sono scatenati in una sorta di vero e proprio sabba incontrollato. I titoli delle prime pagine di alcuni dei principali quotidiani erano: “Italia infetta. In Veneto il primo morto di coronavirus”; “Virus, il Nord nella paura”; “Contagi e morte, il morbo è tra noi”; “Vade retro virus. Primo morto: un 77enne a Padova”; “Avanza il virus, Nord in quarantena”. Ovviamente, nessuna di queste è una fake news tout court, quanto piuttosto il prodotto di una precisa scelta di “cornice narrativa”. I mezzi di comunicazione di massa, in quei giorni, hanno contribuito a definire il tono della conversazione pubblica. E non solo le “persone comuni” sui social hanno iniziato ad alimentare il fuoco della paranoia collettiva con contatori di defunti “di coronavirus”, con ipotesi di complotto, con uscite xenofobe; anche numerosi esperti hanno ceduto alla tentazione di richiamare su di sé l’attenzione con dichiarazioni non sempre condivisibili e in più di un caso sopra le righe, cadendo anche in contraddizione con sé stessi a distanza di pochi giorni. Si giunge così alla terza fase. Sono arrivati, sia a livello politico che sanitario, inviti ai media ad abbassare e contenere i toni. È chiaro che in questo momento si sono sovrapposte varie esigenze: quella di contenere il contagio, ma anche quella di minimizzare i danni economici e politici della situazione: improvvisamente, infatti, gli italiani si sono ritrovati a essere “appestati del mondo”, con gravissime conseguenze di immagine. Quella che superficialmente potrebbe sembrare la sostituzione di un certo tipo di notizie con altre è piuttosto dunque un caso di reframing, a dimostrazione di come le stesse informazioni possano essere, con qualche accortezza, date in maniera radicalmente differente, se non opposta, senza che questo comporti per forza una loro distorsione.» (Vera Gheno)

Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediatizzato da immagini. Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è al tempo stesso risultato e progetto del modo di produzione esistente. Non è un supplemento del mondo reale, la sua decorazione sovrapposta. E’ il cuore dell’irrealismo della società reale.

Guy Debord, La società dello spettacolo

Sotto la superficie delle immagini, si investono i corpi in profondità; dietro l’astrazione dello scambio, si persegue l’addestramento minuzioso e concreto delle forze utili; i circuiti della comunicazione sono i supporti di un cumulo e di una centralizzazione del potere; i giochi dei segni definiscono i dispositivi che fissano al suole le strutture del potere; la bella totalità dell’individuo non è amputata, repressa, alterata dal nostro ordine sociale, ma l’individuo vi è accuratamente fabbricato, secondo tutta una tattica di forze e di corpi.

Michel Foucault, Sorvegliare e punire

 

SENSO CIVICO

«”Multe fino a 4000 euro”, “confisca della macchina”. Uno stato che multa me come untore per 4000 euro e mi si prende la macchina perché evado dai “domiciliari” e al contempo si è graziosamente dimenticato di sanificare le strutture sanitarie bergamasche dopo i primi contagi si fatica a prenderlo sul serio. Come sempre verranno salutate festosamente da una platea di bambini troppo cresciuti che – essendo incapaci di mantenere qualsiasi standard minimo di rispetto, educazione e sicurezza – invocano il rito totemico e salvifico della “maggiore severità”, come se esso bastasse di colpo a redimere da una vita intera di pessima educazione civica.» (Francesco Maria De Collibus)

Il mondo non è affatto impazzito, sebbene non sia per le persone normali. E’ per quelle normalizzate.

Stanislaw J. Lec, Pensieri spettinati

«Questa moderna, ma antichissima, caccia all’untore è particolarmente potente, perché si intreccia con il bisogno individuale di dare nome e cognome all’angoscia di dover combattere con un nemico invisibile: ecco perché indicare un colpevole (“gli irresponsabili”), costruendogli intorno una campagna mediatica che non risponde ad alcuna realtà evidente, permette di dirottare una rabbia destinata a crescere con il prolungamento delle misure di restrizione, evitando che si trasformi in rivolta politica.» (Marco Bersani)

Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: chè la collera aspira a punire: e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d’ingegno, le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi.

Alessandro Manzoni, I promessi sposi

Untore: il vocabolo fu ben presto comune, solenne, tremendo. Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all’erta; ogni atto poteva dar gelosia. E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore.

Alessandro Manzoni, I promessi sposi

«Finalmente un’orda di mediocri che non avevano mai raggiunto nessun risultato degno di nota nella loro vita, che non avevano mai vinto neppure una partita di freccette all’oratorio, che non avevano mai creato nulla di bello – di più: che non avevano nemmeno mai ambito a creare qualcosa di bello –, hanno trovato un modo per essere eccellenti: restano a casa, meglio degli altri. Quando questo (doveroso) lockdown cieco e senza domani incontrerà un domani – perché, prima o poi, lo incontrerà – rimpiangeranno a vita la loro gloria tutta pigiama e piaghe da decubito. Caricatura di una religione orientale, l’inazione elevata a valore supremo non per raggiungere un più elevato grado di coscienza, ma per mancanza di alternative plausibili. Il vuoto non come ideale di chi ha sondato l’impermanenza di ogni cosa, ma come mangime per ingozzare la propria falsa coscienza da delatori.
 Inazione & delazione. La formula del suddito perfetto.» (Enrico Dal Buono)

Il far la spia, il divenire una spia, l’essere una spia, l’avere nel portafoglio una patente di spia, è una delle più alte ambizioni che un italiano possa “nutrire”. La delazione, santificata dalla Patria (qua, qua me la risciacquo la vostra Patria), era l’arte più propria e più alta vi toccasse in sorte. Essa esaudiva ai due desideri principi d’ogni anima citrulla: far del bene al prossimo (secondo una propria personalissima interpretazione) ed essere impiegati de lo Stato.

Carlo Emilio Gadda, Eros e Priapo

«Siamo sicuri davvero che sia scoppiato tutto questo enorme improvviso senso civico e invece non covi da qualche parte, sotto la brace, l’ansia di potere dare una faccia e un nome a un colpevole qualsiasi per avere la soddisfazione di odiare e di sentirsi assolti come serenamente e quotidianamente avveniva prima del coronavirus?». (Giulio Cavalli)

L’odio conserva: è nell’odio, nella sua chimica, che risiede il «mistero» della vita. Non per caso è il miglior ricostituente che sia stato trovato fino ad oggi, tollerato inoltre da qualsiasi organismo, per quanto debole.

Emil Cioran, Il funesto demiurgo

Quando l’odio degli uomini non comporta alcun rischio, la loro stupidità si convince presto, e i motivi arrivano da soli.

Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte

«Il buonismo che imperversa in questi tempi di coronavirus è stomachevole. Improvvisamente ci scopriamo tutti buoni, tutti italiani, tutti patrioti, tutti disponibili verso il prossimo, tutti pronti a rispettare le regole. Siamo diventati così buoni che non ce l’abbiamo più neanche con gli immigrati. Forse perché improvvisamente ci siamo scoperti vulnerabili, fragili, esposti al virus e alla ruota della fortuna che il virus fa girare. Per cui avvertiamo il bisogno di riflettere, di comunicare, di fare gruppo, anche virtualmente, rimanendo in casa e affacciandosi alla finestra o sul balcone. Sentiamo il bisogno di riscoprire affetti a lungo sopiti o di rinsaldare amicizie poco frequentate, in previsione di un futuro incerto e minaccioso. E sentiamo il bisogno di esprimere la nostra vicinanza a coloro che operano per proteggerci da questo terribile aggressore.» (Fabrizio Magnolfi)

Lo spirito umanitario è la lavandaia della società, che strizza nelle lagrime i suoi panni sporchi.

Karl Kraus, Detti e contraddetti

 

LOGICA DELL’IMMUNIZZAZIONE

A forza di lavare, insaponare, forbire, spazzolare, pettinare, spugnare, pomiciare, pulire e ripulire, succede che tutto il sudiciume delle cose lavate passa alle cose viventi.

Victor Hugo

La reazione immunitaria non è in sé negativa. In una situazione normale, la presenza di un sistema immunitario protegge il corpo dell’individuo, così come protegge il corpo politico di una nazione. Il problema comincia quando i nostri sistemi protettivi oltrepassano una certa soglia. In quel momento, accade nelle società ciò che accade ai corpi umani nelle malattie auto-immuni: la reazione troppo violenta del sistema immunitario danneggia la funzione vitale di altri organi, rischiando di portare l’organismo alla morte. È questa l’ambivalenza del paradigma immunitario.

Roberto Esposito, Intervista 22/03/2020

Tutti i dispositivi del sapere e del potere svolgono un ruolo di contenimento protettivo nei confronti di una potenza vitale portata ad espandersi illimitatamente. Per essere conservata, la vita deve rinunciare a qualcosa che fa parte integrante, e anzi costituisce il vettore prevalente, della propria potenza espansiva.

Roberto Esposito, Bios

L’immunizzazione è una protezione negativa della vita. Essa salva, assicura, conserva l’organismo, individuale o collettivo, cui inerisce – ma non in maniera diretta, immediata, frontale; sottoponendolo al contrario ad una condizione che contemporaneamente ne nega, o riduce, la potenza espansiva. Come la pratica medica della vaccinazione nei confronti del corpo individuale, anche l’immunizzazione del corpo politico funziona immettendo al suo interno un frammento della stessa sostanza patogena dalla quale vuole proteggerlo e che, dunque, ne blocca e contraddice lo sviluppo.

Roberto Esposito, Bios

Come uccide COVID-19? (Le Scienze, 15.04.2020)

«I primi dati emersi sulla pandemia di coronavirus mostrano che i decessi sono causati in parte dai danni del virus e in parte da una risposta immunitaria sproporzionata dell’organismo. I trattamenti che si stanno tentando a base di immunosoppressori, come i cortisonici, potrebbero quindi lasciare il soggetto senza armi efficaci per combattere l’infezione. I dati clinici suggeriscono che il sistema immunitario ha un ruolo nel declino e nella morte delle persone infettate dal nuovo coronavirus, e questo ha spinto a provare terapie come gli steroidi che inibiscono la risposta immunitaria. Ma alcuni di questi trattamenti hanno un effetto ad ampio spettro di soppressione del sistema immunitario, il che alimenta il timore che possano ostacolare la capacità dell’organismo di tenere sotto controllo l’infezione virale.» (Heidi Ledford/Scientific American)

Contro quel vortice che essenzialmente siamo, contro l’esplosione transindividuale del dionisiaco, contro il contagio che ne discende, le procedure della ragione elevano un dispositivo immunitario volto a ristabilire significati dispersi, a ridisegnare confini smarriti, a riempire i vuoti scavati dalla potenza del “fuori”. Quel fuori va ricondotto dentro – o quantomeno fronteggiato, neutralizzato. Così come l’aperto va contenuto, delimitato, nei suoi effetti più terrificanti di incalcolabilità, di incomprensibilità, di imprevedibilità. A ciò lavora l’intera civiltà cristiano-borghese con un piglio restaurativo sempre più intenso ed esclusivo: a bloccare la furia del divenire, il flusso della trasformazione, il rischio della metamorfosi nella “roccaforte” della previsione e della prevenzione.

Roberto Esposito, Bios

 

RESISTENZA

Contro questo potere ancora nuovo nel XIX secolo, le forze che resistono si sono appoggiate proprio su quello che esso investe – cioè sulla vita e sull’uomo in quanto essere vivente. Dal secolo scorso le grandi lotte che mettono in questione il sistema generale di potere non si fanno più in nome di un ritorno agli antichi diritti, quel che si rivendica e serve da obiettivo è la vita, intesa come bisogni fondamentali, essenza concreta dell’uomo, realizzazione delle sue virtualità, pienezza del possibile. La vita come oggetto politico è stata in un certo qual modo presa alla lettera e capovolta contro il sistema che cominciava a controllarla.

Michel Foucault, La volontà di sapere

Se si sa quanto tutto è falso, se si è capaci di misurare il grado del falso, allora, ma soltanto allora, l’ostinazione è la cosa migliore: ininterrotti movimenti della tigre lungo le sbarre della gabbia per non lasciarsi sfuggire quell’unico piccolo attimo che serve per la salvezza.

Elias Canetti, La provincia dell’uomo

«Questa non è la fine del mondo, è la fine del modo. Avvertiamo il dolore, diciamogli che non deve più arrivare. Perchè i nostri monarchi devono essere il re-agire e il re-sponsabile. Dobbiamo stare distanti, certo, ma di quanti istanti siamo fatti, quanti istanti ci servono ad essere uomini? Dobbiamo fare un salto in altro perchè la fantasia è un modo di vivere. Certo che bisogna montarsi la testa, bisogna avvitarla, essere presenti. Essere noi gli esempi. Abbiamo dei doveri… tu dov’eri? Abbiamo delle responsabilità e non solo verso quel che ci riguarda, perchè quello che ci riguarda per un po’ ci guarda poi non ci guarda più. Basta con lo scegliere l’odio di scemi vari, quell’odio unto che non va mai via neanche se gratti perchè l’ignoranza è biadesiva, attacca dappertutto. Non basta più nemmeno lavorare perchè lavorare ci ha portato a questo, bisogna capolavorare e fare bene. Tutto torna, come dopo. Valori in corso. E nessun coprifuoco spegnerà mai il nostro.»(Alessandro Bergonzoni)

Lo spazio della nuda vita, situato in origine al margine dell’ordinamento, viene progressivamente a coincidere con lo spazio politico, ed esclusione e inclusione, esterno e interno, bios e zoé, entrano in una zona di irriducibile indistinzione. Lo stato di eccezione, in cui la nuda vita era insieme esclusa e catturata dall’ordinamento, costituiva, in verità, nella sua separatezza, il fondamento nascosto su cui riposava l’intero sistema politico; quando i suoi confini sfumano e s’indeterminano, la nuda vita che vi abitava si libera nella città e diventa insieme il soggetto e l’oggetto dell’ordinamento politico e dei suoi conflitti, il luogo unico tanto dell’organizzazione del potere statale che dell’emancipazione da esso.

Giorgio Agamben, Homo sacer

«Da ogni parte si alzano voci ragionevoli e inquiete, che se non svegliano i nostri governanti, dovrebbero almeno svegliare noi. Perché non si tratta di immolarsi al virus: è giusto stare riparati e tenere chiusi luoghi potenzialmente affollati, e soprattutto le fabbriche che saranno invece le prime a ripartire, ed è giusto che chi è stato contagiato non contagi a sua volta, ma per favore usciamo da questa retorica dell’#iorestoacasa, dell’#andratuttobene, della bandiera tricolore che sventola sui campi, smettiamo di vivere in un terrore superstizioso, non lasciamoci addomesticare dalle serie tv, dagli zum, dai webinar (senza i quali non sarebbero mai riusciti a tenerci rinchiusi), alziamo le orecchie e ascoltiamo la voce di quello che abbiamo di più prezioso, la nostra responsabilità e libertà presente e futura, la libertà che è il nostro sangue letterario e politico, quella, come dice il nostro poeta preferito, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta..» (Ginevra Bompiani)

Il potere dunque non soltanto presuppone, ma anche produce le condizioni di libertà dei soggetti cui si rivolge. Se siamo liberi per il potere, lo potremmo essere anche contro di esso. Saremo in grado non solo di assecondarlo ed accrescerlo, ma anche di resistergli e contrastarlo. Citando Foucault “là dove c’è potere c’è resistenza e tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere”. Ciò non significa che la resistenza sia già da sempre soggiogata al potere cui pare contrapporsi. Piuttosto che il potere ha bisogno di un punto di contrasto su cui misurarsi in una dialettica senza esito definitivo. E’ come se il potere, per rafforzarsi, dovesse continuamente dividersi e lottare contro se stesso, o produrre una sporgenza che lo trascina laddove non era. Questa linea di frattura è la vita stessa. Il luogo – insieme l’oggetto e il soggetto – della resistenza. Nel momento in cui è investita direttamente dal potere, la vita può rimbalzargli contro con la stessa forza d’urto che la provoca.

Roberto Esposito, Bios

L’errore consisterebbe nel dire: esiste uno Stato globalizzante, che è padrone dei propri piani e che tende le sue trappole; e poi esiste una forza di resistenza che finisce con il cadere in lotte locali, parziali e spontanee con il rischio per noi di venire ogni volta soffocati e battuti. Ma lo Stato, anche il più centralizzato, non è affatto padrone dei propri piani, anch’esso è uno sperimentatore, deve fare dei tentativi di sostegno, non riesce mai a prevedere alcunché. Che gioco triste e truccato quelli che parlano di un Padrone supremamente maligno e scaltro. E’ sulle diverse linee di concatenamenti complessi che i poteri conducono le loro sperimentazioni, ma è anche su queste stesse linee che si costruiscono sperimentazioni di altro genere, sperimentazioni che eludono le previsioni, che tracciano delle linee di fuga attive, che cercano il congiungimento di tali linee, che spingono al massimo la loro velocità oppure la rallentano, creando pezzo per pezzo il piano di consistenza.

Gilles Deleuze, Dialogues

 

 

IL GIORNO DOPO (/bis)

Il contagio del Coronavirus potrebbe produrre degli effetti sovranisti, rafforzando il discorso di quelli sostengono che i confini servono, anzi vanno rinvigoriti, per contenere i pericoli a cui ci espone la spinta globale del mondo.

Roberto Esposito, Intervista 22/03/2020

Certo, è comunque una presunta oggettività a dover guidare le decisioni. Se questa oggettività è quella del “confinamento” o della “distanziazione” fino a quale punto di autorità si può giungere per farla rispettare? E, nella direzione opposta, dove comincia l’arbitrarietà interessata di un governo? Oppure quella di un governo che coglie l’occasione per infiammare il nazionalismo?

Jean-Luc Nancy, Un virus troppo umano

Secondo lo statunitense CDC (Centers for Disease Control and Prevention) le malattie che si trasmettono dagli animali non umani agli esseri umani, cioè le cosiddette zoonosi, sono responsabili dei sei decimi di tutte le malattie infettive che colpiscono gli umani. Quindi il Covid-19 non sembra proprio essere così eccezionale. Come a dire, ci sarà sempre qualche virus in circolazione che metterà a rischio la salute umana. O che potrebbe metterla a rischio. E quindi rimarrà sempre la necessità di evitare la diffusione di un possibile contagio. Il dopo Covid-19 sarà comunque un “dopo” con qualche altro virus, e quindi con qualche altra emergenza, o con la semplice possibilità di un’emergenza.

Felice Cimatti, Homo homini lupus

Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri: i suoi figli e i suoi amici formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, egli è vicino ad essi, ma non li vede; li tocca ma non li sente affatto; vive in se stesso e per se stesso e, se gli resta ancora una famiglia, si può dire che non ha più patria. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia, ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Lavora volentieri al loro benessere, ma vuole esserne l’unico agente e regolatore; provvede alla loro sicurezza e ad assicurare i loro bisogni, facilita i loro piaceri, tratta i loro principali affari, dirige le loro industrie, regola le loro successioni, divide le loro eredità; non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere? Così ogni giorno esso rende meno necessario e più raro l’uso del libero arbitrio, restringe l’azione della volontà in un più piccolo spazio e toglie a poco a poco ad ogni cittadino perfino l’uso di se stesso. L’eguaglianza ha preparato gli uomini a tutte queste cose, li ha disposti a sopportarle e spesso anche a considerarle come un beneficio.

Alexis de Tocqueville, Quale dispotismo devono temere le nazioni democratiche

Man mano che la necessità viene socialmente sognata, il sogno diventa necessario.

Guy Debord, La società dello spettacolo

 

IL NORMALE E IL PATOLOGICO

Chi è sedotto dalla felicità finisce per sposare la catastrofe.

David Cooper, Il linguaggio della follia

Si tratta di riflettere sulla facilità con cui un’intera società ha accettato di sentirsi appestata, di isolarsi in casa e di sospendere le normali condizioni di vita, i rapporti di lavoro, di amicizia, di amore e perfino le convinzioni religiose e politiche. Perché non ci sono state, come pure era possibile immaginare e come di solito avviene in questi casi, proteste e opposizioni? L’ipotesi che vorrei suggerire è che in qualche modo, sia pure inconsapevolmente, la peste c’era già; evidentemente, le condizioni di vita della gente erano diventate tali, che è bastato un segno improvviso perché esse apparissero per quello che erano – cioè intollerabili, come una peste appunto.

Giorgio Agamben, Riflessioni sulla peste

«A me i toni catastrofistici non sono mai piaciuti. Questo perché generare panico nella gente è ciò che di peggio si possa fare. Ieri il panico ha generato assalti alle carceri, assalti ai supermercati e corse ai pronto soccorsi. Noi sappiamo che oggi abbiamo un certo numero di morti che sono avvenuti prioritariamente in persone con più di ottant’anni di cui quasi tutti con 3 o più comorbidità. Questa è una cosa molto importante da ricordare perché una buona parte di questi decessi sono avvenuti con il coronavirus e non per il coronavirus. Nessuno vuole banalizzare perché non bisogna essere banalizzanti, ma è giusto ricordare che l’influenza pandemica del 2009 a cui noi esperti ci riferiamo, aveva un tasso di letalità tra lo 0,1% e l’1% a seconda dei sistemi sanitari e fece nel 2009 250 mila morti nel mondo. Quindi nessuno vuole banalizzare perché questa malattia è tutto tranne che banale. Chi l’ha vista e chi l’ha affrontata nel suo lavoro di tutti i giorni sa bene che anche l’influenza non è banale, porta i malati in rianimazione e porta tanti decessi anche tra i giovani. Questo è un virus nuovo, è un virus impegnativo, è un virus che purtroppo crea gravi insufficienze respiratorie, perciò dobbiamo essere pronti. Ma dobbiamo dire che nel 95% dei casi comunque si guarisce.» (Matteo Bassetti)

Quella che stiamo vivendo è sicuramente un’emergenza, ma un’emergenza che sta diventando cronica, sarà cioè la nuova normalità: e questo vuol dire che ci stiamo abituando all’emergenza, e questo vuol dire che abbiamo introiettato di essere noi stessi l’emergenza che vogliamo superare.

Felice Cimatti, Homo homini lupus

Non è vero che “niente sarà più come prima”, dopo il coronavirus. Sono tanti, troppi, quelli che già ora, in piena emergenza, lavorano febbrilmente perché tutto torni a essere “come prima”. Peggio di prima. Sono quelli che hanno preparato il disastro, e che sgomitano per continuare a governarlo sulle stesse “linee guida”, con gli stessi miti, a difesa degli stessi interessi. Sono i testardi che anche dopo l’evidente fallimento dei loro feticistici dogmi, generatori del caos in cui siamo precipitati, si danno da fare per confermarli quei dogmi, rafforzati dal potere coattivo dello “stato d’eccezione”. (Marco Revelli)

Vivere nello stato di eccezione divenuto la regola significa anche che il nostro privato corpo biologico diventi indistinguibile dal nostro corpo politico. Abbiamo dovuto abituarci a pensare e a scrivere in questa confusione di corpi e di luoghi, di interno ed di esterno, di ciò che è muto e di ciò che ha parola, di ciò che è schiavo e di ciò che è libero, di ciò che è bisogno e di ciò che è desiderio. Ciò ha significato fare esperienza di un’assoluta impotenza. Abbiamo attraversato come potevamo questa impotenza, mentre da ogni parte ci circondava il frastuono dei media, che definiva il nuovo spazio politico planetario, dove l’eccezione era diventata la regola. Ma è a partire da questo terreno incerto, da questa zona opaca di indistinzione che dobbiamo oggi ritrovare la via di un’altra politica, di un altro corpo, di un’altra parola.

Giorgio Agamben, Mezzi senza fine

Le malattie sono crisi della crescita, crisi di maturazione delle funzioni di autoconservazione interna e di adattamento alle sollecitazioni esterne. Le malattie possono essere il prezzo da pagare per uomini che sono stati creati viventi senza volerlo e devono imparare che tendono, sin dalla nascita, ad una fine ineluttabile. Questa fine può essere precipitata da malattie brutali, oppure da malattie responsabili di una diminuita capacità di resistenza ad altre malattie. La successione storica di organismi a partire da quella che si chiama oggi l’evoluzione chimica prebiotica è una successione di viventi condannati ad essere solo vitali, a vivere cioè senza garanzie di riuscirvi. La morte è nella vita e di questo la malattia è il segno. Freud scrive: «Un guscio di insensibilità mi avviluppa lentamente. Lo constato senza lamentarmene. E’ un esito naturale, un modo di cominciare a diventare inorganico.» Tra la rivolta e l’accettazione rassegnata del ritorno all‘inorganico, la malattia ha fatto il suo travaglio. Travaglio, stando all‘etimologia, significa tormento e tortura. Tortura è la sofferenza inflitta per ottenere la rivelazione. Le malattie sono gli strumenti della vita con i quali il vivente è obbligato a [pensarsi] mortale.

Georges Canguilhem, Sulla medicina

 

Tutti vogliono il nostro bene. Non fatevelo portar via.

Stanislaw J. Lec, Pensieri spettinati